RBB Formazione nell’ambito del progetto di Corsi sulla Sicurezza sul Lavoro ha promosso uno studio sull’evoluzione storica della tutela del lavoratore che ricostruisce l’origine della normativa su salute e sicurezza sul lavoro e di figure del quotidiano come il Preposto, l’RSPP, ecc.

I temi analizzati nella prima sezione sono:

1. Le origini della prevenzione nel sistema giuridico: l’assicurazione obbligatoria e i primi regolamenti di prevenzione; –

2. La sicurezza sul lavoro nel codice penale Rocco; –

3. La nascita di un autonomo dovere di sicurezza a carico dell’imprenditore; –

4. La prima normativa prevenzionistica specifica: i d.p.r. n. 547/1955, n. 303/1956 e n. 164/1956; –

5. Il D. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626; –

6. Il D. Lgs. 14 agosto 1996, n. 494; –

7. Cenni alla Legge 3 agosto 2007, n. 123; –

8. Il “Testo Unico” di salute e sicurezza sul lavoro: il D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e il D. Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 ( c.d. correttivo).

 

 

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1.      Le    origini    della    prevenzione    nel    sistema    giuridico:  l’assicurazione  obbligatoria e i primi regolamenti di prevenzione.

 

In Italia, abbiamo cominciato ad avere un organico ed autonomo corpus legislativo, disciplinante la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro, soltanto a partire dalla seconda metà degli anni ’50. Il ritardo con cui è stata emanata una disciplina legislativa complessiva, a tutela della salute dei lavoratori, risulta grave se considerato in relazione a quella che già era stata la crescita e la diffusione del fenomeno dell’industrializzazione e, di conseguenza, all’elevato grado di pericolosità del lavoro.

Questo ritardo può essere spiegato soprattutto considerando la concezione del fenomeno infortunistico che ha dominato fino ai primi anni del dopoguerra: nell’individuare le cause degli infortuni sul lavoro venivano, infatti, enfatizzati fattori legati alla mera imprudenza o negligenza comportamentale dei  lavoratori stessi, ed esclusi sia tutti i fattori connessi al tipo di organizzazione del lavoro (fatica fisica, stress, carenze formativo – informative, etc.) sia gran parte dei fattori oggettivi presenti nell’ambiente di lavoro (condizioni di nocività, insalubri, pericolosità di macchine e infrastrutture, etc.). A tutto ciò si aggiungeva, da un lato, l’idea persistente della inevitabilità, fatalità o imprevedibilità dell’infortunio sul lavoro e, dall’altro, il principio, imperante negli anni della prima industrializzazione, della assoluta libertà dell’iniziativa privata, in nome della quale non venivano tollerate limitazioni esterne, di carattere normativo, al potere gerarchico e di organizzazione del lavoro dell’imprenditore.

È in questo quadro culturale che si formò, e rimase a lungo, la tendenza del nostro legislatore ad accettare una logica, non preventiva, ma di  tipo riparatorio.

Infatti, il problema della tutela dell’integrità fisica dei lavoratori, era stato oggetto di attenzione sociale già dagli ultimi anni del secolo XIX, a seguito dell’espandersi della grande industria e dell’incremento progressivo del fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali.

Tuttavia, ritenendo la maggior parte degli infortuni una conseguenza inevitabile della negligenza o disattenzione dei lavoratori, per molti anni il legislatore non trovò altra soluzione che quella di privilegiare una tutela basata sul risarcimento dei danni sofferti dai lavoratori, marginalizzando, quindi, le finalità prevenzionistiche.

Per questo, appunto, il primo intervento in materia, la legge n. 80/1898, sancì l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro degli operai addetti  in alcuni settori industriali specificati. Esso appare diretto ad assicurare ad ogni lavoratore infortunato una copertura minima, sotto forma di indennizzo, a prescindere dalla dimostrazione probatoria processuale della responsabilità eventualmente addebitabile al datore di lavoro. Più precisamente, l’obbligo di assicurazione venne posto a carico degli imprenditori ed era destinato a garantire un indennizzo, a beneficio di quei lavoratori che avessero subito un danno in conseguenza di infortuni ritenuti fortuiti o dovuti a forza maggiore, di infortuni riconducibili a colpa dello stesso prestatore di lavoro nonché di infortuni determinati da atti colposi dell’imprenditore.

Considerata, infatti, la difficoltà di dimostrare la responsabilità colposa dell’imprenditore, in quegli anni solo una ridottissima quota di operai infortunati riusciva ad ottenere il risarcimento dei danni, e tale circostanza, per le conseguenze economicamente negative, aggravava il danno fisico subito dal lavoratore infortunato, pregiudicando la sua stessa possibilità di sopravvivenza e quella della sua famiglia.

Questa situazione non era stata modificata neppure dal tentativo giurisprudenziale di invertire l’onere della prova, imponendo, cioè, all’imprenditore di dimostrare l’assenza di ogni sua responsabilità in ordine all’infortunio: ciò perché, una volta ottenuta la sentenza di condanna dell’imprenditore al risarcimento dei danni, spesso restava difficile l’esecuzione a causa della scarsa consistenza patrimoniale del responsabile se non, addirittura, a ragione di simulazioni fraudolente. E l’assicurazione obbligatoria tendeva proprio ad eliminare queste difficoltà in quanto era l’assicuratore a garantire il risarcimento.

Il particolare istituto venne giustificato da un lato, con l’assunzione del principio della casualità della maggior parte degli infortuni sul lavoro (e, quindi, della relativa occasionalità di tutte le ipotesi di colpa, sia dell’imprenditore che del lavoratore) e, dall’altro, con il riconoscimento che il rischio di tali infortuni dovesse essere posto a carico dell’imprenditore, il quale vi doveva far fronte con la conclusione obbligatoria di un’assicurazione contro i danni. Quest’ultimo assunto fu spiegato con il principio secondo il quale se l’attività imprenditoriale comporta guadagni, di questa devono anche essere sopportate le eventuali perdite, tanto materiali quanto umane.

La legge del 1898 non si limitò a sancire l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro, ma introdusse anche il principio dell’obbligatorietà dell’adozione di determinate misure tecniche dirette a prevenire gli infortuni, delegando il governo ad emanare specifici regolamenti che le avrebbero dovute prevedere. Venne, così, emanato il primo regolamento generale di prevenzione (r.d. n. 230/1899 per imprese ed industrie), a cui si aggiunsero altri regolamenti speciali relativi ad alcune lavorazioni particolarmente pericolose: il regolamento per la prevenzione degli infortuni nelle miniere nelle cave (r.d. n. 231/1899), il regolamento per la prevenzione degli infortuni nelle imprese che trattano o applicano materie esplodenti (r.d. n. 232/1899) ed il regolamento per la prevenzione degli infortuni nelle costruzioni (r.d. n. 205/1900).

Disciplina che, però, a ben vedere, conferma la funzione secondaria assegnata alla prevenzione dal legislatore di allora. La sua ratio, infatti, non fu l’apprestamento di mezzi diretti a tutelare preventivamente la personalità fisica e morale del lavoratore ma, in ultima istanza, il sostegno e la razionalizzazione dello stesso istituto dell’assicurazione obbligatoria, adeguandone la disciplina alle particolari situazioni prese in considerazione. Lo scopo principale delle misure cautelative imposte da qui regolamenti era mantenere il fenomeno infortunistico entro i limiti del rischio preventivato dagli istituti assicuratori sulla base di un calcolo medio degli incidenti sul lavoro, i quali continuavano  ad essere ritenuti in gran parte fortuiti. In altri termini, al datore di lavoro veniva richiesto un minimo di diligenza prevenzionistica affinché non contribuisse a far lievitare la quota prevista, e “fisiologica”, di infortuni e non aggravasse, quindi, i costi delle gestioni assicurative.

Ciò è deducibile da vari elementi.

In primo luogo, dall’iniziale abbinamento delle due discipline, quella assicurativa e quella di prevenzione, in un unico provvedimento; la legge n. 80/1898 regolava in maniera accurata le questioni assicurative e dedicava ai regolamenti preventivi solo tre articoli, stabilendo pochi principi generali e delegando il governo per la loro attuazione.

In secondo luogo, dall’ambito di applicazione degli stessi regolamenti di prevenzione; infatti il regolamento generale n. 230/1899 e gli altri regolamenti speciali dettavano norme per la prevenzione infortuni da applicarsi nelle stesse industrie alle quali si applicava la legge n. 80/1898. Quindi, erano tenute all’osservanza delle misure preventive soltanto le aziende per le  quali sussisteva l’obbligo di assicurazione (le imprese industriali con più di cinque dipendenti e quelle appartenenti a settori caratterizzati da lavorazioni particolarmente rischiose, con la conseguente esclusione dall’ambito applicativo di tutte le piccole imprese, del settore del commercio e di quello dell’agricoltura).

In terzo luogo, dalla genericità delle misure preventive descritte (il regolamento generale n. 230/1899, ad esempio, era costituito da soli 15 articoli) e dalla quasi totale assenza di strumenti organici di intervento pubblico, finalizzato a rendere efficace l’osservanza di tali misure.

Da ultimo, sotto il profilo sanzionatorio, non furono previste misure penali serie e specifiche; in base all’art. 3 della legge n. 80/1898 veniva stabilito che gli imprenditori inadempienti erano puniti a norma dell’art. 434 del codice penale allora vigente (il codice Zanardelli del 1865), il quale, per la trasgressione ad un ordine legalmente dato dall’autorità competente o ad un provvedimento della stessa finalizzato a ragioni di pubblica sicurezza, disponeva l’arresto sino ad un mese e l’ammenda da lire 20 a lire 300.

2.      La sicurezza sul lavoro nel codice penale Rocco

La situazione sin qui descritta iniziò ad essere modificata con l’inserimento nel codice penale, entrato in vigore nel 1930 (c.d. Codice Rocco), degli artt. 437 e 451, i quali disciplinano i delitti in materia antinfortunistica ed hanno un effetto

«prevenzionistico», in quanto sanzionano penalmente condotte da cui potrebbero originarsi situazioni di pericolo a prescindere dal verificarsi dell’evento infortunistico in sé.

La prima di queste disposizioni sanziona il delitto di «rimozione od omissione  dolosa  di  cautele  contro  gli  infortuni  sul  lavoro»  e  statuisce che

«chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a 10 anni».

La seconda, sanziona invece il delitto di «omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro» e prevede che «chiunque, per colpa omette di collocare, ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi destinati all’estinzione di un incendio, o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni  sul lavoro, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa da lire 40.000 a 200.000 (ora, da euro 103 a euro 516)».

Esse sanciscono, per la prima volta, l’autonomia della finalità e delle attività di prevenzione e fanno sorgere una responsabilità penale connessa a comportamenti, attivi o passivi, che possano determinare eventi infortunistici (art. 437 c.p.) o pregiudichino la possibilità di ridurne le conseguenze (art. 451 c.p.), a prescindere dall’effettivo verificarsi dell’evento dannoso.

Si noti, infatti, come, in tali norme, l’eventuale danno derivante dalla violazione dell’obbligo prevenzionistico descritto, costituisca un di più rispetto al reato, ovvero una circostanza aggravante e non un elemento costitutivo dello stesso.

Nell’art. 437 c.p. sono configurate due distinte condotte, una omissiva e una commissiva, ovvero l’omettere di collocare dispositivi destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro e il rimuoverli o danneggiarli; nell’art. 451 c.p., la condotta incriminata ha ad oggetto strumenti necessari a limitare i danni provocati da incendi, disastri o infortuni sul lavoro e si sostanzia nell’omettere di collocarli, nel rimuoverli o nel renderli inservibili. Nell’art. 437 c.p. le apparecchiature descritte hanno una destinazione  direttamente antinfortunistica, mentre nel caso dell’art. 451 c.p., la finalità dei mezzi di prevenzione è quella di limitare e contenere le conseguenze di incidenti già verificatisi.

In ogni caso, la differenza più rilevante tra i due articoli va certamente individuata nell’elemento soggettivo (il dolo per l’art. 437 c.p. e la colpa per il 451 c.p.).

Gli artt. 437 e 451 c.p. non si sono, tuttavia, tradotti, come era nelle intenzioni del legislatore, in un’efficace potenziamento delle disposizioni concernenti la sicurezza del lavoro allora vigenti; ne è conferma il fatto che, in sede giudiziale, essi ebbero un’applicazione più che limitata. Le ragioni di ciò possono essere varie: si potrebbe ipotizzare la scarsa sensibilità istituzionale in tema di prevenzione e, quindi, la scarsa volontà repressiva, da parte della magistratura – almeno fino agli anni ’70 -, di delitti commessi con violazione di norme antinfortunistiche, così come la severità delle pene previste per i due delitti in netto contrasto con l’eccessiva esiguità delle pene stabilite per le contravvenzioni configurate dalle leggi speciali di prevenzione. Motivo, quest’ultimo, determinante per far sì che agli imprenditori fossero regolarmente contestati i reati contravvenzionali di cui alle leggi speciali di prevenzione e non i delitti di cui agli articoli del codice penale. Con specifico riferimento al rapporto tra le contravvenzioni antinfortunistiche e il delitto di cui all’art. 437 c.p., rileva che la giurisprudenza è sostanzialmente concorde nel ritenere che le differenze fondamentali siano da individuarsi «nell’elemento del pericolo per la  pubblica incolumità», richiesto per il reato di cui all’art. 437 c.p. e non ai fini delle contravvenzioni,  nonché «nell’elemento soggettivo», essendo sufficiente, per le contravvenzioni antinfortunistiche, la sola colpa. La suddetta differenza strutturale tra il delitto di cui all’art. 437 c.p. e le contravvenzioni antinfortunistiche ha indotto i giudici ad escludere il «concorso apparente di norme».

Sempre nel codice penale si rinvengono, inoltre, gli artt. 589 e 590 (rispettivamente «omicidio colposo» e «lesioni personali colpose»), cui accedono altrettante circostanze aggravanti speciali afferenti la salute e sicurezza sul lavoro. A differenza delle disposizioni precedentemente indicate, tali norme puniscono eventi gravi (omicidio e lesioni colpose), che si sono già verificati e che sono stati la diretta conseguenza della violazione di norme antinfortunistiche.

3.      La nascita di un autonomo dovere di sicurezza a carico dell’imprenditore

Il codice civile disciplina, in maniera diretta, il tema della sicurezza dei lavoratori in due articoli, estremamente importanti per la prevenzione degli infortuni e delle malattie negli ambienti di lavoro: l’art. 2050 c.c. e l’art. 2087 c.c.

L’art. 2050 c.c., rubricato come «responsabilità per l’esercizio di attività pericolose» statuisce che «chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno».

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, sono da ritenersi

«pericolose», ai sensi di tale norma, le attività:

  • previste dall’art. 46 e ss. del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza;
  • previste da particolari norme antinfortunistiche;
  • che abbiano una pericolosità intrinseca o comunque dipendente dalla modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro impiegati (attività edili, commercio di farmaci contenenti gammaglobuline umane, ).

Tuttavia, la norma che viene generalmente considerata impositiva, al datore di lavoro, di un generale obbligo di sicurezza nei confronti dei propri prestatori è l’art. 2087 c.c.

Con l’inserimento, nelle norme del codice civile del 1942, di tale disposizione furono, da un lato, gettate le basi di un diverso modo di concepire la prevenzione e, dall’altro, viene formalizzato giuridicamente il «dovere di sicurezza del lavoro» a carico dell’imprenditore e, quindi, il corrispettivo «diritto dei lavoratori alla tutela dell’integrità psico-fisica» [LEPORE M., Manuale di diritto della sicurezza sul lavoro, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, (IPZS), 2010, p. 16].

Le innovazioni di rilievo rispetto al passato consistono nell’autonomia dell’obbligazione di sicurezza e, quindi, di prevenzione, rispetto alle finalità assicurative, e nell’ampiezza della stessa obbligazione di sicurezza.

Il datore di lavoro, infatti, ai sensi dell’art. 2087, «è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

In particolare, la disposizione impone al datore di lavoro di adottare, non generiche misure, bensì tutte le misure dettate dalla «particolarità del lavoro», dall’ «esperienza» e dalla «tecnica».

Per «particolarità del lavoro» devono intendersi gli eventuali connotati peculiari dell’occupazione concretamente esercitata dal lavoratore.

Per «esperienza» va intesa l’attenzione, da parte dell’imprenditore, alle conseguenze dannose che sono prevedibili in virtù di eventi e di pericoli già verificatisi e valutati in precedenza.

Per «tecnica» si intende ogni accorgimento messo a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico.

Secondo un orientamento giurisprudenziale abbastanza diffuso, il datore di lavoro avrebbe l’obbligo di adeguarsi alla migliore tecnologia e ai più sofisticati presìdi antinfortunistici. Nessuna indicazione, però, viene fornita per capire quale sia il limite ragionevole da apporre alla migliore tecnologia e alla sofisticatezza dei presìdi antinfortunistici; a tal fine è certamente di ausilio l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale in merito all’art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277/91, dove parla di obbligatorie misure «concretamente attuabili». La Corte, nella sentenza n. 312/1996, ha affermato che «tali misure concretamente attuabili sono quelle che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti […]».

È possibile quindi ritenere che, per garantire l’incolumità dei lavoratori, al datore di lavoro venga imposto l’obbligo di “aprirsi”alle nuove acquisizioni tecnologiche, senza tuttavia trasformarsi in un pioniere della sperimentazione della sicurezza: conseguentemente, egli non sarà tenuto ad applicare immediatamente e costantemente qualsiasi innovazione della scienza e della tecnica prima che questa sia generalmente acquisita, empiricamente valutata e disponibile sul mercato. Dalla violazione dell’obbligo di sicurezza non deriva solo la violazione di un obbligo contrattuale, ma anche una responsabilità di carattere penale: questa però, in base all’art. 25 Cost., è configurabile solo qualora il datore di lavoro, nei diversi lavori e nelle differenti lavorazioni, non abbia introdotto quelle «applicazioni tecnologiche generalmente praticate e gli accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti». In tal senso, D’AVIRRO A., LUCIBELLO P.M., I soggetti responsabili della sicurezza sul lavoro nell’impresa, Giuffrè, 2010, p. 11.

Con riferimento alla “natura”della responsabilità ex art. 2087 c.c., rileva che la giurisprudenza prevalente esclude qualsiasi ipotesi di responsabilità oggettiva, dovendo la condotta del datore di lavoro essere colposa, e cioè consistere nella mancata predisposizione di misure di sicurezza conoscibili con la   comune   diligenza,   in   quanto,   come   ritengono  i  giudici  costituzionali, «generalmente praticate».

Va evidenziato, inoltre, che l’ art. 2087 c.c. è una “norma aperta” ovvero una “norma di chiusura del sistema infortunistico”, nel senso che, data la genericità della sua formulazione, essa impone obblighi tecnici al datore di lavoro anche ove manchi una misura preventiva legislativamente individuata. In mancanza di una legislazione specifica, l’art. 2087 c.c. è, infatti, attualmente la norma  cardine di riferimento in materia di tutela dallo stress organizzativo, dal mobbing e dai rischi psico-sociali, e lo è stata anche in tema di tutela dal fumo passivo nei luoghi di lavoro fino all’emanazione della cosiddetta legge Sirchia (legge 16 gennaio 2003, n. 3).

L’approvazione della Costituzione italiana, infine, ha consentito, qualche anno dopo, di individuare altri due principi di fondamentale rilevanza che, da allora, fungono anch’essi da riferimento per la regolamentazione della materia della salute e sicurezza sul lavoro: il principio in forza del quale la salute è un diritto «fondamentale dell’individuo e interesse della collettività» (articolo 32), e quello che evidenzia come, pur nel quadro di una iniziativa economica privata “libera” (art. 41, comma 1, Cost.), l’attività economica medesima non possa svolgersi in contrasto con «l’utilità sociale» o «in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41, comma 2, Cost.).

La formulazione dell’art. 2087 c.c. – grazie alla sua genericità e “dinamicità” – permette ai principi costituzionali sopra citati di adeguarsi ad ogni possibile situazione.

Tuttavia, proprio l’ampiezza dell’art. 2087 c.c. lasciava insoddisfatte, nel secondo dopoguerra, le esigenze di prevenzione degli specifici rischi di infortunio o malattia professionale, a fronte dei quali si richiedeva una  adeguata regolamentazione delle modalità di esecuzione delle prestazioni che presentassero elementi di pericolosità, secondo le esigenze e le possibilità della organizzazione tecnica del lavoro.

Pertanto, l’evoluzione dell’industria e delle attività produttive e l’aumento del peso sociale delle istanze sindacali dei lavoratori, spinsero il legislatore  ad emanare una serie di norme di settore, introducendo per la prima volta specifici obblighi a carico dell’ imprenditore, con il fine di tutelare la sicurezza nei luoghi di lavoro e di ridurre al minimo i rischi di infortunio. (Sul punto, MONTUSCHI L. (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza: per una gestione integrata dei rischi da lavoro, Giappichelli, 1997).

Si giunge, così, agli interventi legislativi risalenti agli anni cinquanta e, principalmente, al d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 (che contiene un regolamento generale per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), al d.p.r. 7 gennaio 1956

  1. 164 (che concerne la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni), al d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (che predispone norme generali per l’igiene sul lavoro), tutte fonti specificative dell’ampio dettato dell’art. 2087 c.c.

I provvedimenti appena citati possono essere unitariamente considerati, in quanto accomunati dalla tassatività delle previsioni, aventi natura di norme tecniche, dalla natura prevenzionistica delle regole introdotte e dalla rilevanza penale delle disposizioni (FANTINI L., GIULIANI A., Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2011, p. 3.); in sostanza, il sistema delineato dai d.p.r. in parola si concretizzava nell’elaborazione di una serie di norme tecniche il cui rispetto veniva imposto, in primis, ai datori di lavoro ma anche, «nell’ambito delle  rispettive attribuzioni e competenze» (Formula tratta dall’articolo 4 del d.p.r n. 547/1955, per evidenziare come ciascuno dei titolari di posizioni di potere all’interno della struttura aziendale possa rispondere – sempre in modo diverso, in relazione all’ampiezza dei poteri – della violazione delle normative di salute e sicurezza), ai dirigenti ed ai preposti.

La mancata osservanza di tali prescrizioni tecniche comportava la configurazione di contravvenzioni: infatti, l’articolo 389 del d.p.r. n. 547/55 collega ad una qualunque inosservanza l’irrogazione di una sanzione penale (arresto o ammenda); e ciò a prescindere dal fatto che alla violazione della disciplina antinfortunistica avesse fatto seguito la concreta realizzazione dell’infortunio.

In tal senso può sostenersi la natura prevenzionistica della normativa in esame che, come tale, punisce il mancato rispetto delle precauzioni imposte dalla legge a prescindere dagli effetti che esso ha determinato – effetti utili solo ai fini del possibile inasprimento delle sanzioni penali riconnesse alla  violazione.

Con il tempo, la legislazione prevista mostra però alcune lacune, derivanti dalla difficoltà di adattamento alla rapida e continua evoluzione  delle tecnologie produttive ed organizzative del lavoro: norme di questo tipo, cioè

«misure tecniche, rigide e particolareggiate, essendo legate al momento storico in cui vengono emanate, presentano il limite di non essere in grado di regolare convenientemente i nuovi processi produttivi e lavorativi introdotti di pari passo con lo sviluppo tecnologico» [LEPORE M., Manuale di diritto della sicurezza sul lavoro, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, (IPZS), 2010, p. 21.].

Inoltre, il sistema prevenzionale rigidamente programmato dal legislatore, difficilmente poteva essere adeguato al singolo ambiente di lavoro che presenta caratteristiche   specifiche e, conseguentemente, fattori di  rischio peculiari [SOPRANI P., Sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2001, p. 24].

Al contempo, il sistema di regole dei d.p.r. degli anni ’50 mostrava di considerare i lavoratori alla stregua di meri beneficiari della normativa di salute e sicurezza, senza prevedere il loro coinvolgimento nelle attività aziendali di programmazione e di gestione della prevenzione.

Per tale ragione, l’art. 9 della legge 20 maggio 1970, n. 300 prevede espressamente che i lavoratori, mediante le loro rappresentanze sindacali, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, mentre l’art. 20 della legge n. 833/78 (c.d. riforma sanitaria) ha attribuito all’azione congiunta del datore di lavoro e delle rappresentanze sindacali aziendali il compito di individuare le misure di sicurezza necessarie, in considerazione degli specifici fattori di rischio connessi al singolo ambiente di lavoro, anche in aggiunta a quelli istituzionalmente previsti.

In questo modo, da un lato, si consacra la partecipazione dei lavoratori alla realizzazione del sistema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, e, dall’altro, la necessità di adeguamento della normativa alle innovazioni tecnologiche.

4.      La  prima  normativa  prevenzionistica  specifica:  i  d.p.r.  n. 547/1955,  n. 303/1956 e n.164/1956

I d.p.r. n. 547/1955, n. 303/ 1956, n. 164/1956 certamente si caratterizzano per un modello di protezione che presenta una focalizzazione accentuata sulle misure da adottare anziché sulla condotta cui attenersi: si pone, infatti, l’obiettivo di tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori, e di chiunque possa essere presente sul luogo di lavoro, attraverso un’ampia ed articolata rete di norme specifiche di natura tecnica; esse dispongono, nella maggior parte dei casi, l’adozione tassativa di determinati accorgimenti tecnici oggettivi (particolari condizioni ambientali, mezzi personali di protezione) e, solo in ipotesi limitate, il rispetto di comportamenti ispirati a criteri di prudenza[LEPORE M., PERSIANI M., Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro, Utet Giuridica, 2012, p.  11.].

Tale legislazione ha introdotto nell’ordinamento una prevenzione di tipo tecnologico, finalizzata alla predisposizione obbligatoria di un ambiente lavorativo oggettivamente sicuro: uno dei presupposti di questa normativa, volutamente analitica, consiste infatti nel fare affidamento sull’azione prevenzionale dei mezzi tecnici, in grado di offrire tutela persino in presenza di negligenza, imperizia e imprudenza dei lavoratori stessi. Conseguentemente, le norme di tali decreti sono da considerare tassative, ovvero imperative nonché inderogabili in quanto, quando i mezzi da adottare sono precisamente indicati, non lasciano all’imprenditore alcuna discrezionalità in merito alla loro scelta e non consentono l’uso di accorgimenti equivalenti o alternativi [LEPORE M., PERSIANI M., op. cit., p. 11].

Affermare, tuttavia, che in tali disposizioni non sia ravvisabile la benché minima considerazione dell’importanza del fattore umano (come pur è stato fatto), rappresenta una negazione ingiustificata dell’esplicito dettato delle  norme degli anni ‘50, essendo, alcune di esse, del tutto equivalenti a quelle contenute nel d.lgs. n. 626/94.

Il complesso dei provvedimenti citati è certamente sintomatico dell’apprezzabile tentativo del legislatore italiano di dare risposte agli innumerevoli casi di infortunio e di morte registrati sul luogo di lavoro; nel tempo, però, tali specifiche disposizioni non sono sempre risultate di facile applicazione, in quanto tendevano a divenire via via obsolete rispetto all’incessante evoluzione tecnologica.

In pratica, se da un lato vi era lo sforzo e la volontà del legislatore di regolamentare una materia necessitante di punti di riferimento certi, dall’altro, si doveva fare i conti con il progresso che, in molti casi, correva più velocemente dell’evoluzione normativa.

A ciò si aggiunga che, in rapporto ai risultati ottenuti in termini di prevenzione, il c.d. approccio meccanicistico ha contribuito a far maturare una concezione della sicurezza e salute sul lavoro come un «fastidioso fardello» che, per l’imprenditore – soprattutto se di piccole dimensioni -, significava un costo aggiuntivo da sostenere a scapito della sostanziale attività economica (come se tutelare l’integrità dei lavoratori non fosse parte essenziale della vita economica aziendale), mentre per il lavoratore si traduceva in rigide regole da rispettare.

La situazione è risultata, altresì, compromessa dallo «scarso funzionamento dei sistemi di controllo amministrativi, dovuto alla carenza cronica di mezzi,  organizzazione e competenze dei soggetti pubblici coinvolti»14, nonché dall’impreparazione culturale dei rappresentanti sindacali, i quali tendevano unicamente a monetizzare il rischio in sede di rinnovo contrattuale.

Un mutamento culturale è ravvisabile solo a decorrere dagli anni ‘70 ed è destinato a sfociare nella stesura dell’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, secondo il cui chiaro disposto «i lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno il diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica».

Il fardello esiste: fare sicurezza è sicuramente un costo, in termini di denaro  e di tempo, ma come insegna la Suprema Corte di Cassazione, il lavoratore è il fattore più nobile della produzione, e la tutela della sua integrità psicofisica è una priorità assoluta. Tale concezione, del resto, viene esplicitata in modo inderogabile nell’articolo 32 della Costituzione.

5.      Il D. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626

I decreti degli anni ’50, in sostituzione della figura dell’imprenditore, considerano come soggetti destinatari degli obblighi di tutela dei lavoratori, le figure del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti, in quanto soggetti detentori, a diverso titolo, dei poteri di impartire disposizioni in ordine all’esecuzione ed alla disciplina del lavoro e, quindi, sovraordinati gerarchicamente ai lavoratori esposti al rischio. Con questo passaggio dalla figura unica dell’imprenditore alla tripartizione di datore di lavoro, dirigenti e preposti, quali soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza, viene riconosciuto giuridicamente che la sicurezza sul lavoro e  la tutela della salute dei lavoratori dipendono, in prima istanza, dall’organizzazione del lavoro, intesa come insieme di persone coordinate alla realizzazione di uno scopo produttivo e, in particolare, da coloro che, nell’ambito di tale organizzazione, esercitano il potere direttivo, disciplinare e di sorveglianza [LEPORE M., PERSIANI M., Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro, Utet Giuridica, 2012, p. 12.].

I decreti legislativi successivi, a partire dal d.lgs. n. 626/94, mantengono tale assetto.

Il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, noto in Italia con la definizione impropria di “legge” in materia di sicurezza sul lavoro e rimasto in vigore sino all’emanazione dell’attuale Testo Unico, introduce un sistema di prevenzione e di sicurezza aziendale che si basa sulla partecipazione attiva e sulla collaborazione di una pluralità di soggetti interessati alla realizzazione di un ambiente di lavoro che garantisca la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Il decreto concepisce le attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali come attività che coinvolgono tutti i componenti della compagine aziendale, concezione propria della produzione normativa di matrice comunitaria in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Infatti, a partire dagli anni ’80, l’Unione Europea impone ai Paesi membri, tramite lo strumento della direttiva, l’adozione di prescrizioni minime per migliorare gli ambienti di lavoro. Occorre segnalare la fondamentale Direttiva-quadro 12 giugno 1989 n. 391, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, la quale ha costituito la base per l’emanazione di numerose altre “direttive particolari”. Tra queste ultime vanno annoverate: la direttiva n. 89/654/CEE relativa alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute per i luoghi di lavoro, la n. 89/655/CEE relativa all’uso delle attrezzature di lavoro, la n. 89/656/CEE relativa all’uso di attrezzature di protezione individuale, la n. 90/269/CEE relativa alla movimentazione manuale dei carichi, la n.  90/270/CEE relativa all’uso dei videoterminali, la n. 90/394/CEE relativa alla protezione dagli agenti cancerogeni, la n. 90/679/CEE relativa agli agenti biologici, la n. 92/57/CEE relativa ai cantieri temporanei e mobili, la n. 92/58/CEE relativa alla segnaletica di sicurezza, la n. 92/85/CEE sulla tutela della maternità e la n. 93/103/CEE relativa alle attività svolte a bordo di navi da pesca. Tali direttive particolari applicano i principi di cui alla direttiva “madre” alle singole materie di volta in volta dettagliatamente regolamentate.

Tali prescrizioni sono fondate sul principio della valutazione del rischio, il quale rende necessario che il datore di lavoro – coadiuvato da strutture “esperte” (come il SPP e il medico competente) e supportato da chiunque operi nella organizzazione che il datore controlla – realizzi un attento “censimento” delle proprie attività e dei rischi per la salute e per la sicurezza dei lavoratori che ne conseguono, identificandoli e cercando di eliminarli, o, se ciò risulta impossibile, riducendoli al minimo.

Il legislatore italiano, quindi, su sollecitazione dell’ordinamento comunitario e, in particolare, delle direttive comunitarie emanate in ottemperanza all’art. 16, comma 1, della c.d. Direttiva-quadro n. 89/391/CEE, adotta il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 [Il d.lgs. n. 626/1994 recepisce la Direttiva-quadro n. 89/391/CEE, unitamente a ben otto delle “direttive particolari”ad essa collegate, il che ha causato numerose ripetizioni ed ha reso il testo, composto da 98 articoli e 13 allegati, alquanto complesso], successivamente modificato con il d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242.

Tra gli aspetti più innovativi vanno ricordati:

  • la previsione degli obblighi di valutazione del rischio (DVR);
  • il ricorso obbligatorio ai servizi di prevenzione e protezione aziendale (SPP);
  • la sorveglianza sanitaria;
  • la formazione e informazione dei lavoratori;
  • l’istituzione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS).

Per quel che concerne la valutazione dei rischi, essa è finalizzata ad identificare i fattori di rischio e le conseguenti misure che possono essere adottate per eliminare, ridurre i rischi medesimi o proteggere i lavoratori da quei rischi che non sono tecnicamente eliminabili.

«A tal proposito si può affermare, in via preliminare, che la valutazione dei rischi non possa ridursi alla semplice verifica della applicazione puntuale delle precedenti norme di legge in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro» [FERRARA G., GIUDICI M., MORELLI M., ZAPPOLI S., Manuale di sicurezza del lavoro,  Ipsoa, 1997, p. 46.] poiché essa, invece,  deve responsabilizzare il datore di lavoro ad identificare i rischi presenti che emergono dalle caratteristiche delle attrezzature, dei preparati, dei luoghi e  delle modalità organizzative con le quali il lavoro viene svolto. Il documento di valutazione dei rischi dovrà essere elaborato in collaborazione con il servizio di prevenzione e protezione, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Per le imprese articolate in più unità produttive si dovrà predisporre un documento di valutazione per ogni unità produttiva.

Il d.lgs. n. 626/1994 affida inoltre al datore di lavoro il compito di organizzare, all’interno dell’azienda, un servizio di prevenzione e protezione (SPP), ovvero un organo con funzioni permanenti di consulenza, definito (all’art. 2) come l’insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali, e coordinato da un responsabile (RSPP). A tal fine, il datore di lavoro ha la possibilità di scegliere se affidarsi ad una o più persone interne all’azienda oppure ad esperti esterni: in ogni caso, essi devono possedere le competenze e le conoscenze professionali necessarie per lo svolgimento dei compiti loro assegnati (individuazione dei fattori di rischio e delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti lavorativi, elaborazione delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali, formazione ed informazione dei lavoratori, etc.) e non possono subire pregiudizio a causa dell’attività svolta nell’espletamento del proprio incarico. Sul piano giuridico, gli addetti al servizio di prevenzione e protezione ed il loro responsabile non assumono alcuna responsabilità penale connessa allo svolgimento delle loro funzioni poiché, spesso, queste figure non dispongono di potere decisionale autonomo.

Laddove previsto dalle normative vigenti il datore di lavoro procederà, altresì, alla nomina del medico competente a cui affidare i compiti di sorveglianza sanitaria. Il medico competente collabora con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione, effettua gli accertamenti sanitari, istituisce ed aggiorna una cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore, fornisce informazioni ai lavoratori sul significato degli accertamenti sanitari a cui sono sottoposti i lavoratori, comunica, in forma anonima, ai rappresentanti per la sicurezza i risultati degli accertamenti clinici e strumentali effettuati,  visita gli ambienti di lavoro almeno due volte l’anno in collaborazione con il servizio di prevenzione e protezione, effettua le visite mediche richieste dal lavoratore, collabora con il datore di lavoro alla predisposizione del servizio di pronto soccorso, collabora genericamente alla attività di formazione ed informazione dei lavoratori.

In tale nuova prospettiva cambia anche il ruolo del lavoratore che, nella precedente normativa, rivestiva un ruolo passivo ed ora diventa attore, sia in proprio sia attraverso la nuova figura del rappresentante della sicurezza.

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza trae origine dalla volontà del legislatore di affidare ai lavoratori uno spazio di partecipazione maggiore sui temi della sicurezza. Tale partecipazione può essere diretta, ma anche mediata, attraverso una persona o più persone – a seconda delle dimensioni aziendali – che si occupi dei temi della sicurezza con particolare attenzione e preparazione, oltre che con disponibilità di tempo, mezzi e prerogative tutelate dalla legge.

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza deve essere consultato preventivamente in ordine a: valutazione dei rischi, individuazione, programmazione e verifica della prevenzione; designazione degli addetti al servizio di prevenzione e protezione e del relativo responsabile; utilizzo di personale esterno per il completamento delle attività del servizio di prevenzione; designazione degli addetti alle squadre di pronto soccorso, antincendi ed evacuazione dei lavoratori; organizzazione delle attività di formazione rivolte ai lavoratori. Il parere preventivo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è obbligatorio ma non vincolante. Inoltre, deve ricevere, con oneri a totale carico del datore di lavoro, adeguata formazione e disporre del tempo necessario allo svolgimento dell’incarico senza perdita di retribuzione, oltre a poter contare di mezzi, se necessari, per lo svolgimento delle sue funzioni. Egli, inoltre, è tenuto al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui viene a conoscenza nell’esercizio delle sue funzioni.

Quindi, il lavoratore formato ed informato è, non più, un soggetto “che sta  a guardare”, bensì una figura coinvolta a pieno titolo nell’attuazione del “progetto sicurezza”.

Con il d.lgs. n. 626/94 si afferma la centralità dell’uomo e del suo operato – piuttosto che della prevenzione tecnica diretta al solo e mero utilizzo dei macchinari -, dando vita ad un sistema di “prevenzione soggettiva” [LEPORE M., La rivoluzione copernicana della sicurezza nel lavoro, in Lav. inf., n. 22/1994, p. 9]: quel principio di prevenzione, proprio della legislazione precedente, secondo il  quale macchine e ambienti devono sempre possedere i requisiti idonei a garantire oggettivamente sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro (c.d. sicurezza oggettiva delle macchine o “sicurezza tecnologica”), viene affiancato da disposizioni normative tendenti a rendere sicuri i comportamenti operativi dei lavoratori (c.d. sicurezza comportamentale[LEPORE M., PERSIANI M., op. cit., p. 13.]).

La dottrina ha evidenziato come il d.lgs. n. 626/94 abbia delineato un nuovo modello prevenzionistico, nel quale la sicurezza nei luoghi di lavoro viene considerata un obiettivo, da raggiungere attraverso l’azione coordinata di datore di lavoro e lavoratori nonché in virtù di una vera e propria programmazione della stessa in relazione alle specifiche esigenze del singolo ambiente lavorativo.

Tale provvedimento costituisce una vera e propria “rivoluzione  copernicana” nel mondo della sicurezza sul lavoro [MONTUSCHI L., La sicurezza nei luoghi di lavoro, ovvero l’arte del possibile, in Lav. dir., n. 3/1995, p. 405.], in quanto pone il tema della prevenzione non più solo a determinati soggetti ma ad un numero ben più ampio di essi.

Ora, accanto alle figure (datore di lavoro, dirigenti, preposti), in passato chiamate ad adempimenti di tipo preventivo, vengono ad assumere notevole rilievo il responsabile del servizio prevenzione e protezione, il medico competente, i lavoratori e la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Altro aspetto considerevole è quello relativo alla sostituzione del principio dell’adempimento puro con quello della responsabilizzazione.

La filosofia precedente partiva dal presupposto che il legislatore fosse in grado di individuare i rischi cui fossero andati incontro i lavoratori utilizzando i vari impianti o attrezzature. In pratica, il compito di chi operava in azienda era, unicamente, di adempiere agli obblighi formulati dalla norma. Con la nuova legislazione, i rischi non vengono più individuati dal legislatore, e si assiste alla valorizzazione del ruolo proattivo del datore di lavoro con l’ausilio di altre figure che, essendo coinvolte nel procedimento aziendale, riescono a porsi in maniera critica e puntuale nell’individuazione del processo produttivo pericoloso.

Da ultimo, nell’affrontare il tema della protezione dei lavoratori, viene espressa una scala di priorità nelle tipologie di intervento ai quali i soggetti responsabili si devono attenere. L’art. 3 del d.lgs. n. 626/94 richiede, innanzitutto, la valutazione preventiva dei rischi per la salute e la sicurezza (lett. a), indicando come obbligo principale, la loro eliminazione; là dove, però, ciò non sia concretamente possibile, ritiene sufficiente la loro riduzione al minimo (lett. b). E’ necessario, inoltre, privilegiare le attrezzature sicure rispetto a quelle insicure, sostituire ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o lo è meno (lett. e), limitare il numero dei lavoratori che sono o possono essere esposti al rischio (lett. h), informare e formare i lavoratori sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro (lett. s) nonché impartire agli stessi istruzioni adeguate (lett. t).

Per quel che riguarda il campo di applicazione, il d.lgs. n. 626/94 trova attuazione in ogni luogo di lavoro nel quale vi sia la presenza di persone che prestino la propria opera alle dipendenze di un datore di lavoro con rapporto di lavoro subordinato, anche nelle pubbliche amministrazioni  [L’art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 626/94, definisce, infatti, il lavoratore come «persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro […] con rapporto di lavoro subordinato anche speciale»];

«Nei riguardi delle Forze armate e di Polizia, dei servizi di protezione civile, […] delle strutture giudiziarie, penitenziarie, […] degli istituti di istruzione ed educazione  di ogni ordine e grado, degli archivi, delle biblioteche, dei musei e delle aree archeologiche dello Stato, delle rappresentanze diplomatiche e consolari, e dei mezzi di trasporto aerei e marittimi, le norme del presente decreto sono applicate tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio espletato […]»[Art. 1, comma 2, d.lgs. n. 626/94].

Nonostante il carico di aspettative e l’introduzione, per la prima volta in Italia, di un testo normativo organico in materia di sicurezza sul lavoro, la vigenza del decreto legislativo n. 626/94 non ha prodotto benefici effettivi sul numero degli incidenti e degli infortuni.

Le statistiche mostrano, infatti, come dal 1994 al 2007 le c.d. morti bianche siano costantemente aumentate, a dimostrazione che gli andamenti infortunistici sono legati, non tanto alla forza dissuasiva delle sanzioni previste dalle norme prevenzionistiche, quanto, molto probabilmente, all’efficienza e all’adeguatezza dei controlli sul territorio. Vedi sito: http://www.inail.it/internet/default/Statistiche/Statistichestoriche/index.html.

Come appare evidente, soprattutto in materia di sicurezza sul lavoro, per assicurare efficacia a simili disposizioni, deve essere riconosciuto un ruolo centrale all’organizzazione dei controlli, alla loro diffusione omogenea su tutto  il territorio nazionale nonché alla dotazione finanziaria assegnata per il loro svolgimento.

L’apparato sanzionatorio, di per sé, non può risultare sufficiente per abbattere il numero di “morti bianche” e di incidenti, se ad esso non sono associati collaudati sistemi di controllo.

6.      Il D. Lgs. 14 agosto 1996, n. 494

I cantieri temporanei e mobili costituiscono un contesto strutturale e ambientale che espone i lavoratori a rischi particolarmente elevati: questa considerazione ha indotto il legislatore comunitario ad emanare una “direttiva particolare”, nel quadro generale della sicurezza sul lavoro già delineato con la Direttiva-quadro n. 89/391/CEE.

Si è visto come l’entrata in vigore del d.lgs. n. 626/94, coinvolgendo l’intero tessuto produttivo nazionale, abbia avuto notevoli riflessi anche nel mondo dell’edilizia; ma ci si potrebbe, allora, chiedere perché il legislatore comunitario prima, e quello nazionale poi, abbiano sentito così forte la necessità di adottare una disciplina specifica per i cantieri.

I motivi sono diversi: innanzitutto, è palese come il comparto edile ha sempre presentato, da un lato, rischi infortunistici specifici rispetto ad altri, dall’altro, un elevato numero di infortuni in relazione al numero di addetti.

In secondo luogo, le lavorazioni edili si caratterizzano per la transitorietà del luogo di lavoro: la durata di un cantiere è solitamente di qualche mese, se non addirittura di qualche settimana o giorno (fatte salve le nuove costruzioni o ristrutturazioni e talune opere stradali) e ciò comporta il configurarsi di una realtà diversa rispetto a quella cui fa riferimento il d.lgs. n. 626/94, una realtà dove appare sicuramente più complesso dettare norme per garantire la sicurezza.

Pensando ad un cantiere della durata di pochi giorni, è sicuramente arduo ipotizzare l’adempimento di tutti gli obblighi formali e strumentali imposti dal d.lgs. n. 626/94, (ad esempio la nomina del rappresentante per la sicurezza o l’organizzazione del servizio di prevenzione e protezione) dal momento che si finirebbe con lo scoraggiare le imprese ad intraprendere simili lavori; bisogna invece prevedere misure che tutelino la salute e la sicurezza senza incidere eccessivamente sia da un punto di vista burocratico che da un punto di vista economico.

Alla limitata durata temporale si accompagna poi la variabilità delle condizioni di lavoro: un cantiere si presenta come una realtà nuova mano a mano che procedono le fasi lavorative: non è possibile, infatti, equiparare  i rischi esistenti nella fase di scavo, con quelli esistenti nella fase di realizzazione degli impianti, né, a maggior ragione con quelli esistenti all’interno di una fabbrica o di un ufficio.

In terzo luogo, è causa determinante per il verificarsi degli infortuni è la contemporanea presenza di più imprese (es.: muratori, elettricisti, idraulici, etc) che, la maggior parte delle volte, svolgono la propria prestazione senza un minimo di coordinazione tra loro, anzi, spesso intralciandosi a vicenda e quindi determinando situazioni di potenziale pericolo: ecco nascere la necessità di sollecitare i rapporti tra i vari soggetti e di evitare inutili sovrapposizioni.

Quest’insieme di fattori ha spinto dunque il legislatore europeo ad inserire, tra le direttive particolari, quella dedicata alla sicurezza nei cantieri[Direttiva n. 92/57/CEE], al fine di fornire agli operatori del settore uno strumento specifico e complementare rispetto alla normativa generale: tale strumento è stato recepito nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 494/1996.

Il cantiere può essere definito come «un’opera provvisionale la cui vita, intensa ed operosa, è pari alla durata dei lavori. Esso consiste generalmente nel luogo nel quale si depositano, si lavorano e si preparano i materiali e quant’altro occorre per la costruzione dell’opera […]. Ogni cantiere costituisce un’entità organica che vive una propria vita, più o meno breve o più o meno agitata e operosa, indipendentemente dall’azienda dell’appaltatore della quale costituisce una filiazione di carattere temporaneo. Esso viene impiantato, infatti, per l’esecuzione di una determinata opera e viene smobilitato con il compimento di questa, mentre l’azienda ha invece carattere continuo» [CIANFLONE A., GIOVANNINI G., L’appalto di opere pubbliche, Giuffrè, 2012, pp. 422-428]. Da tale definizione appare palese che un cantiere non può essere assimilato all’unità produttiva in quanto, seppur dotato d’autonomia organizzativa, non ha autonomia di gestione e finanziaria.

La qualificazione di “cantiere”, in cui si svolgono lavori edili e di ingegneria civile, non è comunque sufficiente a delineare in modo esauriente l’ambito di applicazione del d.lgs. n. 494/96, dal momento che lo stesso individua differenti livelli di attuazione degli obblighi, in relazione alle diverse condizioni in cui si presume possa trovarsi il cantiere [Linee guida della regione Lombardia, in http://www.altnet.it.].

7.      Cenni alla Legge 3 agosto 2007, n. 123

Constatando il fallimento sostanziale del d.lgs. n. 626/1994, nel suo obiettivo di abbattere il numero degli incidenti sul lavoro, in seno alla comunità accademica italiana non sono mancati quanti hanno creduto di ravvisarne un’ulteriore causa nella natura disarticolata delle fonti di produzione vigenti in questo ambito.

Va rammentata, infatti, la mancata abrogazione delle norme emanate dal legislatore prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 626/1994, le quali, ai sensi dell’ art. 98, d.lgs. n. 626/94, sarebbero rimaste in vigore «in quanto non specificatamente modificate» dai contenuti del decreto medesimo. Ciò ha comportato che le vecchie disposizioni hanno mantenuto tutto il loro valore, salvi i casi in cui siano state espressamente modificate o siano risultate incompatibili con la nuova normativa.

La scelta del legislatore del 1994 di non operare un’abrogazione completa ed espressa delle disposizioni che reputava potessero ancora svolgere  una funzione specifica in materia di igiene e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, fu, verosimilmente, una scelta criticabile, soprattutto considerando i gravi disagi ingenerati in quanti, operatori del ceto forense, erano chiamati ad assicurare la difesa della sicurezza del lavoratore sul luogo di lavoro.

Dimostrando di accettare anche la spiegazione appena richiamata e motivato dall’idea di pervenire al riordino complessivo del quadro normativo, il legislatore ha approvato la legge 3 agosto 2007, n. 123, mediante la quale è intervenuto in due direzioni:

  1. laddove reputato fattibile ha apportato al tessuto normativo esistente, direttamente e immediatamente, in sede parlamentare, una serie di modifiche, le quali ci accingiamo a riepilogare brevemente;
  2. in rapporto ad aspetti bisognevoli di una razionalizzazione adeguatamente approfondita, ha delegato il Governo, attraverso la norma contenuta nell’art. 1, comma 1, della legge n. 123/2007, ad emanare «uno o più decreti legislativi», rivolti al «riassetto ed alla riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro» e adottati «nel rispetto dei principi e criteri direttivi generali» individuati nel comma

Tra le innovazioni direttamente introdotte dalla legge n. 123 del 2007, vanno ricordate le seguenti:

  • l’articolo 3 apporta modifiche al d.lgs. n. 626/94, il cui art. 7, comma 3, viene sostituito dall’introduzione dell’obbligo, a carico del datore di lavoro committente, di elaborare un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare le interferenze. Inoltre, all’art.

7 viene aggiunto il comma 3-ter, il quale prevede che nei contratti di somministrazione, di appalto e di subappalto, di cui agli articoli 1559, 1655 e 1656 del codice civile, debbano essere specificamente indicati i costi relativi alla sicurezza del lavoro.

  • l’articolo 6 impone l’obbligo, per le attività in appalto o subappalto, di munire il personale occupato dall’impresa appaltatrice o subappaltatrice di apposita tessera di riconoscimento corredata di
  • l’articolo 5 estende il campo di applicazione del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale alle gravi e reiterate violazioni delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza sul
  • l’articolo 9 prevede l’applicazione di sanzioni pecuniarie e interdittive, nei confronti delle imprese, in caso di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e lesioni colpose gravi o gravissime (590 c.p.) commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul In particolare, con l’art. 9 della legge n. 123 del 2007 è stato aggiunto l’art. 25septies al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il cui contenuto è stato oggetto di ulteriore modifica ad opera dell’art. 300 del d.lgs. n. 81/2008 (decreto legislativo attuativo della legge di delega).
  • l’articolo 8 sostituisce l’art. 86, comma 3bis, del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), stabilendo che il valore economico dell’appalto deve tenere conto anche dei costi relativi alla sicurezza, i quali non sono comunque soggetti a ribasso d’asta. E’ bene precisare che gli artt. 2, 3, 5, 6 e 7 sono stati poi trasfusi nel decreto legislativo attuativo della legge di delega (d.lgs. n. 81/2008), mentre i restanti articoli (ovvero gli artt. 4, 8, 9, 10, 11 e 12), estranei al decreto, sono tuttora in vigore.

 

 

8.      Il “Testo Unico” di salute e sicurezza sul lavoro: il D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e il D. Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 (c.d. correttivo) 

La delega di cui alla legge n. 123/2007 è stata attuata mediante il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81[Gazzetta Ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008, Supplemento Ordinario n. 108.], il quale, in applicazione della previsione contenuta nell’art. 1, comma 6, della legge n. 123/2007 (prevedeva che «Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti di cui al comma 1, nel rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dal presente articolo, il Governo può adottare, attraverso la procedura di cui ai commi 4 e 5, disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi».), viene successivamente modificato ed integrato dal d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106 (c.d. correttivo)[ Gazzetta Ufficiale n. 180 del 5 agosto 2009, Supplemento Ordinario n. 142]. Pertanto, la normativa convenzionalmente definita come “Testo Unico” di salute e sicurezza sul lavoro, è il risultato del combinato disposto dei decreti legislativi n. 81/2008 e n. 106/2009.

Dal punto vista redazionale, il “Testo Unico” di salute e sicurezza sul lavoro, è un apparato normativo di notevole mole, in quanto si compone di 306 articoli, suddivisi in XIII Titoli, e di LII Allegati; l’ultimo Allegato reca il numero LI, ma è necessario considerare che l’Allegato III si distingue in Allegato IIIA e Allegato IIIB, ovvero in due diversi documenti.

Come si evince dalla lettura dell’articolo di apertura del provvedimento, esso persegue la finalità di «riassetto e di riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro, mediante il riordino e il coordinamento delle medesime in un unico testo normativo», utile, innanzitutto, ad evitare all’interprete problematiche ricerche delle disposizioni applicabili.

Fondamentale è, comunque, la formulazione del secondo periodo dell’art. 1, comma 1, il quale specifica che la predetta finalità viene perseguita «nel rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia, nonché in conformità all’art. 117 Cost. […], garantendo l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, […]».

«L’uniformità della tutela […] sul territorio nazionale», deve intendersi limitata alla sola individuazione, da parte del legislatore statale, dei «livelli essenziali delle prestazioni», poiché viene riconosciuto alle Regioni il potere di predisporre garanzie “incrementali” della sicurezza sul lavoro [TROJSI A., La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, in NATULLO G., PASCUCCI P., ZOPPOLI L. (a cura di), Le nuove regole per la salute e la sicurezza dei lavoratori, Ipsoa, 2010, p. 21]. In particolare, esse possono dettare discipline di maggior favore rispetto a quella statale, ovvero “a maggior tutela” della salute e sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro, tramite la previsione di prestazioni tali da potenziarne i livelli essenziali, fissati dallo Stato con funzione di tutela di base (i c.d. minimi di tutela, non derogabili in peius). La disciplina regionale “migliorativa” può introdurre, ad esempio, azioni di promozione della cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro, predisponendo tanto un’efficace attività di informazione, di orientamento al rispetto delle norme vigenti in materia, di consulenza ed assistenza dei lavoratori e delle imprese, quanto norme incentivanti e premiali a sostegno delle iniziative aziendali. Altre possibili forme di “tutela incrementale” sono state  indicate dalla Corte Costituzionale nelle pronunce in tema di mobbing (C. Cost. n. 359/2003 e n. 22/2006), secondo le quali le Regioni possono intervenire con misure di sostegno idonee a studiare i fenomeni in tutti i loro profili, a  prevenirli o a limitarli nelle conseguenze. Il legislatore regionale ha, quindi, il compito di rafforzare il nucleo di tutele individuato dalla normativa statale, anche al fine di adattarlo alle differenze esistenti tra i singoli contesti territoriali. [TROJSI A., La potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, in NATULLO G., PASCUCCI P., ZOPPOLI L. (a cura di), Le nuove regole per la salute e la sicurezza dei lavoratori, Ipsoa, 2010, pp. 23- 25].

Poiché, inoltre, il d.lgs. n. 81/2008 costituisce strumento di recepimento delle direttive comunitarie in materia, l’art. 1, comma 2, prevede la c. d. clausola di cedevolezza; secondo tale clausola le disposizioni del decreto, riguardanti ambiti di competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome oggetto di disciplina comunitaria e/o internazionale, si applicano nelle Regioni  e nelle Province autonome nelle quali ancora non sia stata adottata la normativa regionale e provinciale e perdono comunque efficacia dalla data di entrata in vigore di quest’ultima. Tale disposizione rappresenta attuazione dell’art. 117, comma 5, Cost., il quale conferisce alle Regioni e alle Province autonome il potere di provvedere, nelle materie di loro competenza, «all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea», riservando però al legislatore statale il compito di disciplinare, oltre alle norme di procedura per l’esercizio di tale potestà regionale, «le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza» delle Regioni.

Ciò premesso, dal punto di vista sistematico il “Testo Unico” si compone di una prima parte in cui rinvenire le disposizioni applicabili ad ogni soggetto e ad ogni ambiente di lavoro (il Titolo I) e di una seconda parte nella quale sono elencate norme di specifico interesse (i Titoli successivi al primo).

Il Titolo I (recante “Principi comuni”) «esprime la logica dell’intervento legislativo, contenendo le disposizioni generali necessariamente da applicare a tutte le imprese destinatarie delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro»[In questi termini la “Relazione illustrativa” che accompagna il testo del d.lgs. n. 81/2008].

 

Dalle norme in esso contenute emerge la volontà, del legislatore delegato, di conservare i capisaldi del principale provvedimento previgente in materia di salute e sicurezza sul lavoro (il d.lgs. n. 626 del 1994, e di procedere, al contempo, ad un ampliamento della disciplina, rendendola più completa: basti pensare che i principi generali, prima racchiusi negli artt. 1-29, oggi sono inseriti in 61 disposizioni. La programmazione della sicurezza in azienda accompagnata dalla partecipazione attiva di tutti i soggetti costituisce, la struttura portante del “Testo Unico”.

I titoli successivi al primo si collocano, rispetto a quest’ultimo, in un rapporto che potrebbe definirsi da genere (il Titolo I) a specie (Titoli II – XI), nel senso che le prescrizioni dei singoli Titoli, i quali si aprono con l’individuazione del relativo campo di applicazione, trovano attuazione solo al verificarsi delle condizioni in essi descritte. In via approssimativa, potrebbe sostenersi che l’esecuzione del Titolo I è sempre necessaria, mentre quella dei Titoli “speciali” è eventuale e, comunque, sempre concorrente con quella del Titolo I. In ogni caso, i Titoli successivi al I riprendono la normativa contenuta in prima istanza nel d.lgs. n. 626 del 1994. «A titolo di esempio, la disciplina “generale” in ordine alla valutazione del rischio va integrata con quella “peculiare” di cui al Titolo IX del “Testo Unico”, ove sussista, in concreto, un rischio relativo all’uso di sostanze pericolose (ex. sostanze chimiche), come definite in tale Titolo IX». In questo senso, FANTINI L., GIULIANI A., Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2011  p. 15.

Come già per il Titolo I, ciascun Titolo del “Testo Unico” individua autonomamente (“in coda” alle singole regole) il proprio apparato sanzionatorio, il quale opera nel rispetto della previsione contenuta all’articolo 298, rubricato “Principio di specialità”. Tale norma specifica che: «Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione prevista dal titolo I e da una o più disposizioni previste negli altri titoli, si applica la disposizione speciale».

Il provvedimento si chiude con il Titolo XIII, contenente le norme transitorie e finali e, in particolare, le abrogazioni previste dal “Testo Unico”. Considerata la mole delle norme succedutesi nel tempo, si comprende perché, nel procedere all’abrogazione delle stesse, il legislatore delegato abbia scelto di ricorrere ad un

«mix di abrogazione espressa, nominata e innominata» [GUASTINI R., Abrogazione in IUDICA G., ZATTI P. (a cura di), Glossario, Collana Trattato di diritto privato, Giuffrè, 1994]: infatti, mentre le lettere a-c) dell’articolo 304, comma 1, elencano espressamente e “nominalmente” le norme che “cadono” a seguito dell’entrata in vigore della nuova normativa, la lett. d), in via residuale, prevede l’abrogazione di «ogni altra disposizione legislativa e regolamentare nella materia disciplinata dal decreto legislativo medesimo incompatibili con lo stesso» (abrogazione “espressa innominata”). In questo modo,  il legislatore evita l’ardua fatica di esplicitare tutte le norme di legge e regolamentari da ritenere abrogate, limitandosi a quelle qualitativamente e quantitativamente più rilevanti (d.p.r. n. 547/1955, d.p.r. n. 164/1956, d.p.r. n. 303/1956,  d.lgs.  n.  626/1994,  etc.)  e  delega  agli  “addetti  ai  lavori” (dottrina, giurisprudenza, organi di vigilanza, etc.) il compito di valutare l’”incompatibilità” di ulteriori disposizioni, diverse da quelle esplicitamente abrogate, rispetto alle norme del nuovo decreto [NATULLO G., L’assetto delle fonti, le abrogazioni e le disposizioni finali, in NATULLO G., PASCUCCI P., ZOPPOLI L. (a cura di), Le nuove regole per la salute e la sicurezza dei lavoratori, Ipsoa, 2010, pp. 44-45].

Tra le principali novità introdotte dalla riforma, si annoverano:

  • l’estensione del campo di applicazione della legge, da ora applicabile, altresì, ad occupati diversi dai subordinati (articolo 3);
  • la creazione di un sistema informativo per la condivisione e la circolazione di notizie sugli infortuni, sulle ispezioni e sulle attività in materia di salute e sicurezza sul lavoro (articolo 8);
  • il finanziamento delle azioni promozionali private e pubbliche, con particolare riguardo alle piccole e medie imprese – e alla formazione delle medesime – (articolo 11);
  • un nuovo regime sanzionatorio (artt. 55 e );
  • nuove modalità per la redazione del documento di valutazione del rischio. Al fine di rafforzarne la centralità e renderlo effettivo (ovvero non meramente burocratico) il legislatore delegato, a differenza del passato, ha voluto dedicare a tale adempimento un’intera Sezione – la seconda del Capo III del Titolo I – regolamentandolo minuziosamente;
  • l’introduzione di obblighi di natura organizzativa; fino all’entrata in vigore del “Testo Unico”, essi non venivano esplicitati espressamente dalle disposizioni normative anche se implicitamente riconducibili al principio generale secondo il quale la sicurezza e la tutela della salute dei lavoratori sono nella responsabilità di coloro che, in azienda, hanno il potere di organizzare il lavoro ex art. 2082 c.c. Con il d.lgs. n. 81/2008, il tema dell’organizzazione del lavoro, finalizzata oltre che alla produzione di beni e di servizi anche alla sicurezza e salute dei lavoratori, viene prepotentemente alla ribalta come obbligo giuridico, il quale si aggiunge ai già esistenti obblighi di natura tecnica (standards tecnologici di prevenzione relativi a impianti, macchine, attrezzature, ambienti), comportamentale (imposizione di determinati comportamenti di prevenzione a carico dei destinatari e dei beneficiari degli obblighi giuridici), formativa ed informativa. Infatti, il comma 2, lett. d), dell’art. 28 T.U. stabilisce espressamente che il documento di valutazione dei rischi deve contenere, oltre all’indicazione delle misure di prevenzione e protezione, anche «l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri» [LEPORE M., PERSIANI M., cit., p. 14.].
  • la regolamentazione dell’istituto della delega di funzioni [LEPORE M., PERSIANI M, cit., pp. 15-17] (articolo 16), con il recepimento degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali consolidati in materia. Per la precisione, già nel d.lgs. n. 242/1996, che ha modificato il d.lgs. n. 626/1994, era stato escluso che il datore di lavoro potesse delegare l’adempimento degli obblighi relativi alla valutazione dei rischi, all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi nonché alla designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, sancendo indirettamente la legittimità della delega del datore di lavoro, ai suoi dirigenti, di tutti gli altri obblighi di prevenzione e protezione. L’impossibilità, o il divieto, di delegare la valutazione dei rischi con la conseguente redazione del relativo documento, nonché la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, è stata confermata dal “Testo Unico” (articolo 17) – così come il principio della legittimità della delega di ogni altra attività – e si traduce nella imposizione al datore di lavoro di adempiere a tali obblighi personalmente oppure per il tramite del potere direttivo, ovvero con personali disposizioni impartite a suoi collaboratori tecnici o con incarichi a consulenti esterni specializzati (ciò vale soprattutto con riferimento alla valutazione dei rischi). «Il divieto di delega non impedisce che la materiale elaborazione del piano operativo di sicurezza venga affidata ad un tecnico, salvo poi che esso venga fatto proprio dal datore di lavoro mediante sottoscrizione autografa dello stesso». [In questo senso, Cass. pen., sez. IV, sentenza n. 6133 del 16.2.2009 in GUARINIELLO R., Il T. U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, Ipsoa, 2012, p. 188].
  • altra novità presente nell’articolo 16 T. U. consiste nel fatto che la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro delegante con riguardo al corretto esercizio, da parte del delegato, delle funzioni trasferite. Tale obbligo, però, si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4, U.